SALVIAMO I RIFUGI PASTORALI DELL’ENNESE

by Giuseppe Maria Amato
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SALVIAMO I RIFUGI PASTORALI DELL’ENNESE

I Cùbburi raccontano le civiltà mediterranee

Sin dalle prime esperienze di addomesticazione ed allevamento risalenti al neolitico l’uomo si rese conto che allevare specie legate al pascolo comportava garantire alle stesse una dotazione bastevole di essenze foraggere, significava, cioè, non solo difendere il gregge, conoscerne le esigenze, mantenerlo sano ed unito ma anche seguirlo nei naturali spostamenti stagionali verso le aree più tiepide in inverno e più verdi e fresche durante le estati. In tutto il bacino del Mediterraneo si iniziò a praticare quella che oggi viene chiamata “transumanza”, una pratica considerata patrimonio immateriale dall’UNESCO e capace di segnare persino la forma stessa del territorio con i “tratturi”, le trazzere e le infrastrutturazioni utili ad accogliere sia gli animali che gli stessi pastori durante l’alpeggio.

Ovviamente, la permanenza in montagna durante le calde estati mediterranee portò alla creazione di rifugi provvisori con recinti complessi e diversificati per le bestie e capanne più o meno stabili per i pastori. Si pervenne così alla creazione di veri e propri abitati con vasti recinti in Sicilia chiamati “Mànnare” e “Màrcati”, non di rado costruiti in pietra a secco e dotati di ampie difese create ad arte con rovi e arbusti spinosi a difesa dai lupi. Le abitazioni dei pastori non differivano quasi mai dallo schema della abitazione a capanna che fu il modulo delle case mediterranee dal neolitico sino a tutto il medioevo con le Longhouse e che qui vennero definite “Pagghiara”. Di questa tipologia di casa dai tetti di materiale vegetale, si ebbero diversi esempi in tutta la Sicilia, dalle capanne dei vignaioli e dei lavoratori giornalieri, a quelle dei pastori e, persino, interi villaggi stabili costruiti secondo questo schema.

In alcuni casi, però, la dotazione di materiale lapideo facilmente sbozzabile in lastre, unita alla conoscenza della tecnica della “falsa volta” portò alla costruzione di capanne ben più stabili e durature che almeno nell’Appennino siciliano presero il
nome di “Cùbburi”.

Cubburo allAncipa Cerami. SALVIAMO I RIFUGI PASTORALI DELL'ENNESE
Cùbburu all'Ancipa (Cerami). Foto di Giuseppe Maria Amato

A pianta quadra e più raramente pseudo circolare, i Cùbburi hanno mura ben spesse costruite semplicemente sovrapponendo filari di grosse lastre litiche e portando la muratura sino ad un’altezza media di circa un metro e mezzo per poi, lasciato il varco per una porta in genere segnata da un pesante architrave in pietra, iniziare a sistemare filari di altre lastre accuratamente in bilico l’uno sull’altro sino a stringere la circonferenza ad un semplice buco in alto, un “opaion”, un occhio dal quale sarebbe uscito il fumo del focolare e attraverso il quale la pioggia non sarebbe riuscita ad entrare se non in minima quantità.
Il modello è quello delle tholoi micenee, probabilmente delle pseudotholoi minoiche, ma anche dei trulli della Valle d’Itria.

Una testimonianza chiara dell’esistenza di una rete di relazioni culturali tra le terre che circondano il Mediterraneo e che, a dispetto delle apparenti diversità odierne, di lingua, di religione, di nazionalità, mantengono le tracce di una koiné, una comunità culturale che appare tanto più forte nei contesti della ruralità e della montagna.

Così mentre in Sicilia i “Cùbburi” compaiono ancora sui Nebrodi e da relitti sugli Erei e sugli Iblei, nella isola di Creta, le montagne dello Psiloritis sono luogo dei “Metatoi”, costruzioni in pietra a pianta quadra e circolare, coperte da una falsa volt ed adibite a rifugio dei pastori in alpeggio.

Metatos dello Psiloritis Creta. SALVIAMO I RIFUGI PASTORALI DELL'ENNESE
Metatos dello Psiloritis, Creta. Foto di Giuseppe Maria Amato

Incredibile poi come il termine “Metatos”, ancora utilizzato a Creta, sia identico a quello di “Metato” che, nella Toscana montana, in Garfagnana, Lunigiana e sulle Apuane, indica una costruzione montana atta non ad abitarvi ma a affumicare le
castagne, preziosissimo frutto dei boschi appenninici.
Così si palesa questa rete di culture comuni, ci si spiega la incredibile somiglianza tra Hanoughia sulle alte montagne di Creta e Capizzi sui Nebrodi, ci si rende conto di come da millenni i popoli mediterranei, scalfiti all’esterno dalle imposizioni dei dominanti, abbiamo mantenuto oltre la scorza una sostanza resistente, un nocciolo duro che è ancora quello degli antenati più lontani.

I Cùbburi, la cui esistenza è oggi messa in gioco dall’abbandono, dai crolli, dalle demolizioni, di questa rete rappresentano la testimonianza più chiara, più evidente, più fascinosa e meriterebbero ben altra sorte che quella odierna.
Se da un lato qualcuno si sta adoperando per la creazione di un “cammino dei Cùbburi” dall’altro grave è il silenzio delle istituzioni e grande è il rischio che a breve gran parte di questo antico patrimonio faccia la triste fine dei Cùbburi di Monte Mola a Leonforte, nell’ennese, demoliti con le ruspe semplicemente perché incompresi.

La cultura montana siciliana con i Cùbburi, i Màrcati, le Mànnare, i Pagghiara, le Niviere, gli ingrottati, merita un progetto regionale di tutela e riscoperta.

 

Immagine in evidenza: Cozzo Mola di Leonforte, Cùbburo danneggiato, 1986. Foto di Giuseppe Maria Amato

Cubburo allAncipa. Cerami interno 2 SALVIAMO I RIFUGI PASTORALI DELL'ENNESE
Cùbburo all'Ancipa. Cerami, interno. Foto di Giuseppe Maria Amato

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