Sfidare la morte per osservare da vicino l’interno di un cratere in attività. Non si tratta della trama di un film di fantascienza, ma di una vicenda realmente accaduta nel 1914. Teatro dell’impresa la bocca dello Stromboli, un vulcano caratterizzato principalmente da costanti emissioni di materiali piroclastici. Protagonista principale Arpad Kirner: un ingegnere ungherese che conosceva l’isola e che preparò la discesa all’interno della bocca con meticolosa precisione tecnica e assoluto sprezzo del pericolo. Ad accompagnarlo quel giorno di maggio del 1914 c’era anche il direttore dell’osservatorio vesuviano, Malladra, che a sua volta si era messo alla prova facendosi calare proprio all’interno del Vesuvio, ma in una fase di semi dormienza del vulcano. L’ardito ingegnere ungherese anni dopo raccontò che collaborò all’impresa anche un certo dottor Cuffaro, chimico palermitano, senza però fornire al riguardo altri dettagli informativi. La discesa verso il centro della Terra sperimentata a Stromboli si inquadrava in realtà in un fenomeno più ampio che si prolungò per diversi decenni del Novecento, sin quasi all’alba del ventunesimo secolo: la vicinanza fisica tra studiosi e fenomeni vulcanici. Era ritenuto uno dei modi possibili per esercitare la ricerca scientifica, richiamando contemporaneamente attenzione e curiosità da parte dei mezzi di comunicazione del tempo.

Per alcuni famosi studiosi-esploratori attivi nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, come il francese Haroun Tazieff, la spericolata discesa di Kirner rappresentò certamente un punto di riferimento. Un modello da tenere quantomeno presente. Del resto, va detto, che con i mezzi del tempo documentare le attività vulcaniche comportava comunque una certa dose di rischio personale: E ancora negli anni Novanta del secolo scorso le strumentazioni esistenti imponevano di avvicinarsi alle bocche attive. Erano comuni le immagini di studiosi che si spingevano sino al bordo del flusso lavico per misurarne la temperatura, ovviamente dopo avere indossato delle tute protettive.

Oggi la telecamera termica fornisce invece tutti i dati restando a debita distanza, anche quelli riguardanti il flusso di emissione alle bocche. L’avventura di Kirner allo Stromboli, che pure sembra uscita dalle pagine di Jules Verne, non fu quindi una follia isolata, ma in realtà si inquadrava in un più vasto fenomeno che coinvolgeva una parte degli studiosi di vulcani, pronti a rischiare la vita per mettere in pratica “ l’osservazione” diretta dei fenomeni.
Un comportamento che richiama la tanto discussa “morte di Empedocle”: il filosofo dell’antica Akragas la cui scomparsa all’interno del cratere dell’Etna ha offerto lo spunto a decine di interpretazioni tra mito e filosofia, fu suicidio o azzardo, voglia di conoscenza o inganno finale? Di certo il nostro Kirner sapeva di muoversi sull’incerto limite fra scienza e leggenda mentre indossava una pesante armatura di acciaio e si assicurava a una fune ignifuga che lo avrebbe calato per circa 250 metri all’interno del cratere dello Stromboli. L’esperimento avvenne nella primavera del 1914, ma solo alcuni giornali ne arrivarono a dare la notizia a livello internazionale. Presto la spericolata avventura venne oscurata dallo scoppio della prima guerra mondiale. La vicenda venne quindi rispolverata da riviste americane solo nel 1933. Diciannove anni dopo. E sarà questa volta lo stesso Arpad Kirner a raccontare i dettagli dei fatti in unarticolo a sua firma apparso sulla rivista americana Popular Science Monthly, che gli dedicò la copertina: “Nessuno di quelli che mi avevano preceduto negli studi dei vulcani – scrisse – aveva osato discendere in un cratere in piena attività. Essi si erano accontentati di semplici escursioni alla bocca del Vesuvio o dell’Etna durante periodi di quiescenza. Se avessi avuto successo nel mio piano sapevo che sarei stato testimone di fenomeni mai visti prima da nessuno”

In effetti lo Stromboli è ben diverso dagli altri grandi vulcani italiani, proprio in quanto caratterizzato da persistente attività esplosiva. Ecco perché la scommessa dell’ingegnere ungherese poteva facilmente trasformarsi in tragedia. “Dal punto di vista scientifico – spiega Santo Scalia, https://ilvulcanico.it/arpad-kirner-luomo-che-scese-dentro-lo-stromboli-in-eruzione/, informatissimo cultore di cronache vulcanologiche – va detto che Kirner non condivise nessuna nuova conoscenza, si trattava soprattutto di sfide nelle quali si intendeva dimostrare coraggio e capacità tecnica”. Non soddisfatto di essere sopravvissuto al cratere saturo di gas dal quale venne tirato fuori semi-svenuto, dopo aver terminato l’ossigeno contenuto nelle bombole che portava sulle spalle, Kirner appena un paio di settimane più tardi tentò un’altra spericolata impresa. Questa volta decise di risalire la Sciara di Fuoco di Stromboli (ovvero il canalone in cui si riversano costantemente i prodotti esplosi dalle bocche sommitali) insieme a un amico, indossando entrambi pesanti e curiose corazze di acciaio. Come moderni cavalieri anziché la lancia imbracciavano una cinepresa con la quale si ripromettevano di documentare l’azzardata escursione. Chiusi dentro lo scafandro i due esploratori risalirono faticosamente l’area dissestata che oggi viene osservata dai turisti rimanendo sulle barche ormeggiate al largo. Ebbero giusto il tempo di esaurire la pellicola contenuta nella cinepresa, che dovettero iniziare un accelerato rientro sotto una pioggia di prodotti vulcanici. Anche l’armatura venne ad un certo punto abbandonata in modo da consentire una più veloce fuga verso il bordo della Sciara, dove gli esploratori vennero soccorsi e portati ancora una volta in salvo dagli amici presenti.
