La “pesca dei tonni e dei lor soci è ricchezza in sostanza della Sicilia, sicché è una delle primarie aziende che per sé conteggi il nostro paese”. Così, nel Settecento, scriveva il marchese di Villabianca e se si pensa che per lungo tempo la pesca del tonno ha inciso per circa il 5% sul PIL siciliano, dando lavoro a migliaia di persone, ben si comprende su cosa basasse la sua considerazione. Un decreto del 1524 chiarisce che chi era impegnato nella tonnara non poteva essere importunato dai creditori da aprile a giugno (quando si calavano le reti e si procedeva alla mattanza) e che chi si trovava in carcere per debiti civili doveva essere liberato il tempo necessario per prestare la propria opera.
I malfaraggi (così si chiamavano gli edifici della “tonnara a terra”, a servizio della “tonnara a mare”) si susseguivano uno dopo l’altro lungo la costa isolana, ce n’erano di grandi e di piccoli, alcuni erano elaborati altri più essenziali. Non c’era una tipologia costruttiva uguale per tutti, perché le variabili erano numerose – dalla posizione sulla costa alla disponibilità economica del proprietario – ma tutti avevano vicino una torre di avvistamento, un massiccio baluardo in cui alcune sentinelle si alternavano a far la guardia, per dare l’allarme in caso di avvistamento di pirati.
Oggi di quella remunerativa attività resta il ricordo nelle pietre battute dal vento dei ruderi delle tonnare che ancora resistono al trascorrere del tempo, come a Vendicari, Porto Palo di Capo Passero e a San Vito Lo Capo, dove le vecchie costruzioni sono un elemento del paesaggio lungo splendidi tratti di costa, oggi apprezzati dai bagnanti. Alcuni malfaraggi
sono stati recuperati e trasformati: a Scopello la bellissima costruzione che ospitava barche e tonnaroti, di fronte a uno specchio di mare di straordinaria purezza, è destinata all’accoglienza, così come a Trabia e a Bonagia dove, nella torre di quello che adesso è un albergo, è stato allestito un museo della tonnara.
.A Favignana, l’ex stabilimento della Tonnara Florio, l’unica che riuscì a diventare una vera e propria industria, con una produzione importante e la capacità di imporsi sul mercato, oggi è un museo in cui vengono illustrate la lavorazione e le tante caratteristiche del tonno, uno dei protagonisti della gastronomia mediterranea e siciliana in particolare.
La visita comprende diversi corpi dello sterminato stabilimento, dove si ricoveravano barche, ancore e reti, con i grandi ambienti con i tavoli ancora ingombri di scatolette di ogni dimensione, e sale in cui foto e allestimenti multimediali narrano di un’attività che, ancora fino a pochi anni fa, riusciva a coniugare tradizione e modernità. La costruzione attuale venne realizzata sul finire dell’Ottocento su progetto di Giuseppe Damiani Almeyda che ne aveva ricevuto l’incarico da Ignazio Florio. L’imprenditore aveva acquistato l’intero arcipelago nel 1874, proprio allo scopo di avviare la produzione industriale di tonno in scatola. Partendo dall’esistente, il cosiddetto edificio “Torino” l’architetto, come usava all’epoca, progettò uno stabilimento funzionale ma senza dimenticare l’estetica. Quindi ambienti luminosi e ampi, volte a crociera, cortili alberati e stanze destinate ai servizi per gli operai, compreso un asilo per i figli dei lavoratori.
La visita si dipana fra rimesse per le barche, dove le immense muciare sembrano pronte a prendere il mare, le enormi caldaie per la cottura del pesce, i magazzini, la grande sala dove, in moderne lattine con la chiusura a chiave, si inscatolava il tonno sott’olio, una soluzione innovativa che fu inventata proprio a Favignana. In uno dei magazzini c’è una ricostruzione in scala della tonnara, con le varie reti disposte secondo un ordine preciso fino alla “camera della morte”, l’ultima rete, che veniva issata a forza di braccia per consentire ai pescatori di uccidere i tonni a colpi di fiocina. L’edificio Torino ospita un’installazione multimediale realizzata raccogliendo le testimonianze di una ventina di lavoratori, con ologrammi che si animano al passaggio dei visitatori. E poi ci sono le foto di Herbert List, René Burri, Ferdinando Scianna, Sebastião Salgado, il documentario degli anni Venti realizzato dall’Istituto Luce, l’installazione di Renato Alongi con gli schermi che rimandano in loop immagini subacquee di tonni mentre risuonano la musica di Gianni Gebbia e le cialome (canti) dei tonnaroti.
In uno degli ambienti trovano spazio i reperti della sezione archeologica, con anfore, ceppi d’ancora, i micidiali rostri che i Romani montavano sulle loro navi da guerra e che sono stati recuperati nel mare delle Egadi dall’infaticabile Sebastiano Tusa, al quale è dedicato il piccolo museo.
Anche se al principio del Novecento i Florio dovettero cedere la tonnara, essa rimase in attività ancora a lungo, l’ultima mattanza risale al 2007. Poi l’introduzione di stringenti quote di pesca e gli alti costi hanno chiuso, forse definitivamente, questo capitolo.