I naufragi sono finestre temporali ed i relitti il teatro dove la vita si è fermata. Una delle motivazioni che spinge l’uomo ad affrontare l’ignoto degli abissi è il desiderio della scoperta. La sfida ad identificare un relitto sia che si tratti di una nave che di un aeroplano.
E quando quella capsula del tempo rappresentata dal relitto viene aperta, si liberano improvvisamente momenti di vita drammaticamente interrotti dall’inabissamento. Pagine di storia spesso sconosciute, vicissitudini umane che aspettavano di essere rievocate.
E ciò che si prova a riportare alla luce la Storia, è bellissimo e indescrivibile.
Sono sensazioni che ho provato in occasione della scoperta dei resti del veliero greco Angelika, naufragato nelle acque di Ribera (AG) la notte del 7 febbraio del 1906 nel corso di una tempesta che ha portato ad affondare la nave e i marinai.
Il sindaco di Inousses, l’isoletta dell’Egeo orientale dalla quale era salpata l’imbarcazione, nel 1997 convocò un consiglio comunale straordinario per comunicare ai suoi cittadini che, dopo 90 anni, si conosceva finalmente il luogo del naufragio della loro nave ed il cimitero dove riposano i loro congiunti.
Con le due grandi ancore del veliero, recuperate prima che la corrosione le dissolvesse, ho realizzato a Seccagrande (fraz. di Ribera) un monumento ai marinai greci dell’Angelika.
Se ogni relitto che giace in fondo al mare ha un fascino particolare, il relitto di un aereo ha un fascino speciale: è come vedere un falco abbattuto con le ali spiegate; incute ancora timore e se ne vuol sapere la storia.
La storia di uno di questi aerei è quella del caccia italiano più bello della Seconda Guerra Mondiale: un Macchi 202 “Folgore” (foto 1) colpito nel 1942 dalla contraerea di Malta e costretto ad un ammaraggio a pochi metri dalla riva di Borgo Bonsignore (AG). La matricola dell’elica mi ha consentito assieme ad altri indizi di identificare quel Macchi come l’aereo di Aldo Gon, sopravvissuto all’abbattimento e divenuto Generale di Squadra Aerea, che successivamente ha contribuito, negli anni ‘60, a fondare la Pattuglia Acrobatica Nazionale, le celebri Frecce Tricolori.
Per i relitti più antichi, è soltanto grazie a rigide linee guida scientifiche che una nave antica fornirà notizie sull’evento che l’ha condotta ad inabissarsi. Nel 1960, George Bass, professore emerito della Texas A&M University, fu il primo archeologo a condurre lo scavo subacqueo di un antico relitto nella sua interezza. Uno studio condotto secondo i canoni dell’archeologia subacquea ci ha restituito notizie sull’architettura navale, sulle merci trasportate, sulla rotta seguita nave, sugli strumenti di navigazione, sui presidi di difesa e persino sulla vita di bordo, comprese le abitudini alimentari e lo stile di vita dei marinai.
Ma bisogna ricordare che una poco nobile motivazione che spinge gli uomini ad affrontare gli abissi è l’appropriazione dei reperti storici che giacciono sott’acqua: anfore, bronzi, monete o porcellane, frugando anche con braccia robotiche di veicoli sottomarini, ROV, (remotely operated vehicle). È ciò che è successo nel nostro mare nel 1997, quando l’oceanografo Robert Ballard, con l’ausilio di un piccolo sommergibile nucleare: l’NR-1 (foto 5), ha effettuato una missione nel mare a nord della Sicilia occidentale.
Ufficialmente avrebbe dovuto condurre una missione di archeologia subacquea alla ricerca di antichi relitti giacenti a notevole profondità lungo l’antica rotta Cartagine-Roma. L’operazione gli permise il rinvenimento di otto relitti, che non si limitò solo a rilevare e documentare, ma dai quali prelevò centinaia di reperti (foto 6) che al termine della missione diede in consegna ad una fondazione privata americana che aveva co-finanziato quella missione,
Quella che si presentava come una missione scientifica, era un evidente saccheggio del nostro patrimonio archeologico sottomarino.
Ma l’approccio ai relitti continua ad essere aggressivo, anche violando le direttive del protocollo UNESCO di Parigi del 2001, che considera i relitti giacenti in acque cosiddette libere, patrimonio dell’Umanità. Nonostante questo, è proprio il Titanic ad essere stato razziato. Oltre a trafugare oggetti appartenuti alle sfortunate vittime del naufragio, è stata asportata parte della fiancata della nave, con la quale sono state realizzate le ghiere di costosissimi orologi da collezione, mentre nel relitto della nave più bella del mondo, l’Andrea Doria (foto 7), che dal 1956 giace a -74 metri al largo delle coste degli USA, è stato creato un varco con esplosivo per raggiungere le cucine di prima classe e recuperare piatti e tazze Richard Ginori da immettere nel mercato del collezionismo.
Sappiamo perfettamente che ad essere ostile non è il relitto, ma l’ambiente che lo circonda, i relitti sono luoghi di mistero e di morte che come sirene ammaliatrici attraggono gli uomini.
Il naufragio del Titanic ha determinato l’orribile decesso per ipotermia di oltre 1500 persone a cui oggi, con la vicenda del Titan, occorre aggiungerne altri 5.
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Nel 1978 nelle acque prospicienti la tonnara di San Vito lo Capo (TP), il mercantile Kent è stato dato alla fiamme dallo stesso equipaggio turco-cipriota. La visione del relitto sommerso a 25 metri è da mozzare il fiato. Ci si immerge nel blu delle acque cristalline di San Vito, poi si materializza la sagoma di una nave fantasma lunga 72 metri, incagliata su un fondale a 51 metri di profondità con la catena dell’ancora ancora tesa come in navigazione, non sbandata neppure di un grado. Secondo qualcuno non trasportava copie pregiate del Corano, come dichiarato dall’equipaggio, ma centinaia di AK-47, i micidiali Kalashnikov destinati alla mafia siciliana.
Il Kent, se non fece vittime nel suo affondamento, ne stava facendo nel suo permanere sul fondo del mare. Un sommozzatore andato incontro a depressione respiratoria per aver fumato poco prima dell’immersione ed altri due sub, per un blocco degli erogatori.
Raggiungere acque profonde per soddisfare la voglia di scoperta, il desiderio di spingersi dove nessun altro è mai arrivato o saziare il famelico desiderio di accaparrarsi antichi reperti non è esercizio da affrontare con approssimazione.
A seguito della recente vicenda del Titan, il portavoce della società proprietaria del sommergibile ha dichiarato “Questi uomini erano veri esploratori che condividevano un grande spirito d’avventura e una profonda passione per l’esplorazione e la protezione degli oceani del mondo”. Si tratta di una dichiarazione che suona come frase d’occasione, ma Massimiliano Tarantino, direttore della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, di dichiarazione ne ha fatta un’altra: “Si tratta di un fascino feticista per l’ignoto, ma bisogna lasciare l’ignoto ad una dimensione di scienza.”