A differenza degli ecosistemi naturali, quelli antropizzati, hanno sempre una dimensione storica e perciò soggetti a una continua evoluzione. L’evoluzione storica dell’uso del territorio viene descritta attraverso gli eventi visibili e permanenti, modificatori della morfologia originaria (spietramenti, messe a coltura di terreni), dei sistemi idrologici (bonifica idraulica), dell’assetto agricolo e forestale (modifiche degli assetti colturali), della struttura degli insediamenti antropici (processi di crescita dei nuclei urbanizzati, delle reti viarie, delle tipologie insediative di tipo sparso).
Mentre in età greco-romana le terre erano in mano ad una oligarchia di proprietari e predominava la cerealicoltura e la pastorizia, nel medioevo, soprattutto durante la dominazione araba (IX – XI secolo), a partire dal 831 d.C. ebbe inizio la “rivoluzione agricola araba”, quando gli arabi, con un enorme bagaglio di conoscenze nel campo della gestione delle acque, realizzarono pozzi, qanāt, saje, norie a tazze (in siciliano sénia), gebbie e mediante l’applicazione di avanzate tecniche rurali e competenze scientifiche, trasformarono gran parte dei latifondi coltivati a monocoltura di grano, in nuove terre fruttifere. Nuove specie di piante furono introdotte e/o diffuse, evidenziando così nell’accresciuta biodiversità, un grande risultato a livello paesaggistico.
Nell’attuale territorio della provincia di Ragusa, a partire dal XVI secolo, vastissime zone boschive ed altre acquitrinose furono recuperate all’uso agricolo mediante opere di disboscamento e di bonifica. Ma la caratteristica principale del territorio ibleo è la divisione della proprietà che, nata in epoca risalente con la censuazione enfiteutica del XVI secolo, è continuata per tutta l’età moderna e contemporanea ha finito per diventare la chiave esplicativa delle dinamiche politiche, economiche e sociali.
Il frazionamento del paesaggio agrario, caratteristica peculiare del territorio ibleo, risale appunto, al XVI secolo quando nella vasta Contea di Modica degli Enriquez-Cabrera (dal XI al XIX sec) a partire dal 1550, a causa delle difficoltà economiche per la svalutazione della moneta, veniva sperimentato l’istituto dell’enfiteusi di antica origine (conosciuto in età greca e romana) ma con caratteri del tutto locali ed originali, che incidevano profondamente nell’assetto proprietario e nella diversificazione colturale.
Infranto il latifondo, le terre, libere da vincoli feudali, erano possedute in piena proprietà da un nuovo ceto dei piccoli e medi proprietari e furono dati in affitto per la produzione di grano, orzo, vite e pascolo. Tutto ciò, mediante un lento ma costante processo di colonizzazione e di trasformazioni fondiarie, che hanno generato varie forme di capitalismo. Tale processo è stato capace di modificare non solo le vocazioni ambientali del paesaggio agrario, ma anche i tradizionali equilibri fra città e campagna.
I concessionari erano medici, ecclesiastici, ma assieme ad essi c’erano anche numerosi contadini laboriosi e risparmiatori (i “massari”), che si impegnarono alla bonifica e alla sistemazione fondiaria. In tutto il territorio furono impiantati numerosi oliveti, carrubeti, vigneti, frutteti, furono costruite masserie, mulini, palmenti, trappeti ed anche numerose ville. Alla cerealicoltura si aggiungeva la coltivazione di piante tessili quali la canapa e il lino. Le opere di bonifica riguardavano principalmente il prosciugamento di acquitrini, la canalizzazione delle acque a corso libero, la delimitazione dei poderi coi tipici muri a secco che oltre ad essere il risultato di uno spietramento funzionale, costituirono limiti di proprietà (chiuse) difendendo i campi dal bestiame ed evitando sconfinamenti dello stesso. I muri a secco formavano un reticolo che delimitò i piccoli e grandi “ivignali”. L’orditura dei muretti a secco è l’elemento che maggiormente caratterizza buona parte del territorio provinciale e che, certamente, rappresenta una delle forme più elaborate attuate dall’uomo.
Nel versante ipparino, un fenomeno similare si ebbe agli inizi del secolo XVII per la città di Vittoria, fondata a seguito della “licentia populandi”, cioè una concessione del Regno di Sicilia, in favore di baroni o feudatari, consistente nel privilegio di popolare un feudo e costruire un borgo.
Con tale licenza molti apprezzamenti di terreno del feudo di Boscopiano sono stati concessi in enfiteusi, grazie anche ad un complesso di facilitazioni materiali e fiscali.
Grazie al sapiente uso delle acque nei terrazzi fluviali, per la facilità con cui era possibile approvvigionarsi di acqua per l’irrigazione e per la presenza di terreni alluvionali, si ebbe l’incremento delle coltivazioni irrigue (canapa, cotone, lino e ortaggi). L’origine di questi orti (“cannavate” o “canapate” ovvero terrazzi fluviali coltivati a canapa), si fa risalire infatti al periodo della dominazione araba.
Il paesaggio agrario agli inizi del XX secolo subisce un ulteriore cambiamento con la bonifica idraulica delle zone paludose e la creazione di terreni irrigui, mediante le captazioni da parte di privati delle acque dalle falde profonde, e la canalizzazione dei Consorzi di Bonifica, che hanno permesso di irrigare ampie plaghe vocate agli ortaggi. Si sviluppò la coltura del pomodoro primaticcio in pieno campo e a ciclo autunno-primaverile (ottobre-maggio). Per difendere le piante di pomodoro dalle gelate, si ricorreva a coperture individuali realizzate con foglie di agave americana, con cladodi di ficodindia, con tegole di terracotta, con triangoli di legno posti opportunamente a coppia, e successivamente alla protezione per mezzo di stuoie “cannizzate” (intreccio di canna comune, steli di lino, di sesamo, di paglia di orzo, di steli e foglie di cannizzuole e di ula) infisse in posizione inclinata a opportuna distanza dalle piante, lungo il filare.
Verso la fine degli anni ’50 del secolo scorso, si ebbero i primi tentativi di coltura in serra fredda, mediante l’impiego di film di polietilene e strutture in paletti di castagno, che diventa il fulcro portante della grande avventura produttiva degli anni ’50-60-70, anni in cui la piccola proprietà serricola era un’importante fonte di reddito.
Fondamentale negli anni è stata l’adozione di tecniche di coltivazione innovative, che ha comportato una graduale trasformazione del settore. Le condizioni di mercato e le alte spese di produzione hanno imposto che l’azienda serricola abbia dimensioni più ampie rispetto a quelle dei decenni precedenti.
In questi ultimi anni si assiste al progressivo abbandono delle serre a capannina e dei tradizionali metodi colturali, con l’introduzione di serre ad ampia cubatura ad arco con struttura in acciaio zincato, e all’utilizzo di metodi quali il fuori suolo, che permette di coltivare piante in substrati inerti, nutrendole con soluzioni controllate.
Nella foto di copertina: olivo secolare di Chiaramonte
Nella foto di copertina: Olivo secolare di Chiaramonte
Riferimenti bibliografici
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